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Il Monopoly delle disuguaglianze



di Leonardo Chesi






Giocare alla pari



Nel corso del 1904 Elizabeth Magie brevettò un gioco da tavolo che chiamò The Landlord’s Game. L’intento di Elizabeth Magie – seguace del georgismo, una filosofia politico‑economica che sosteneva che le proprietà comuni, come la terra e le risorse naturali, dovrebbero appartenere a tutte le persone – era quello di mostrare come fosse ingiusto l’accaparramento delle risorse da parte di pochi. Il gioco proponeva due modalità: una cooperativa (Prosperità) e una individuale (Monopolista). Una sera, durante la Grande depressione, Charles Darrow giocò a The Landlord’s Game insieme ad altri amici. Questi ridisegna il gioco, apporta delle modifiche e lo chiama Monopoly (in Italia c’era il fascismo e fu imposto il nome più autarchico di Monopoli), invertendo completamente lo scopo del gioco: il messaggio era «compra, diventa ricco perché tutti desiderano essere milionari». Il gioco vendette milioni di copie e in ogni scatola del Monopoly fu inserito un foglietto con la storia ufficiale del gioco e cioè quella di un uomo in povertà che, con un colpo di genio, diventa milionario. Magie, vedendo stravolte le finalità del suo gioco, cercò di reagire legalmente, ma aveva venduto il brevetto alla Parker Brothers qualche anno prima.

Recentemente, l’Osservatorio delle disuguaglianze francese ha prodotto il Monopoly des Inégalités elaborato dall’agenzia di comunicazione Herezie. Basandosi sul Monopoly classico, le regole sono state modificate in modo che ogni giocatore si metta così nei panni di un personaggio assegnatogli all’inizio del gioco e scopre come le regole si applichino in modo diverso a seconda del sesso, dell'età, del colore della pelle, della categoria sociale, ecc. L’intento pedagogico è quello di invitare a pensare sulle disuguaglianze e sulle discriminazioni, ogni regola non è arbitraria ma generata dai dati reali che offrono spunti di riflessione.





Le dimensioni della discriminazione


Uno dei problemi più radicali che affligge la vita d’individui appartenenti a diverse minoranze è quello della discriminazione, che colpisce in diversi ambiti sociali ponendo le persone che ne sono vittima in situazioni di grave svantaggio e difficoltà.

I dati di alcuni rapporti recenti evidenziano come questo problema sia ancora diffuso, persistente e restio a migliorare.

Nel rapporto del 2017 dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA), sono stati intervistati 25.515 soggetti, appartenenti ai 28 stati dell’Unione Europea, con diverse provenienze etniche e facenti parte di minoranze con retaggio migratorio.

Il 24% dei soggetti intervistati ha espresso di esser stato vittima di discriminazione sulla base dell’etnia, 12% sulla base del colore della pelle, 12% sulla base della religione professata, 7% sulla base dell’età, 2% sulla base del genere, 1% sulla base della disabilità e 0,2% sulla base dell’orientamento sessuale, nei cinque anni precedenti il sondaggio.

Questi atti discriminatori sono stati poi catalogati in cinque diversi ambiti: durante la ricerca del lavoro, al lavoro, nell’accesso ai servizi sanitari, nella ricerca di un alloggio e nei contatti con le autorità scolastiche e nella frequentazione di servizi pubblici o privati (come trasporti pubblici, uffici amministrativi, nell’accedere a ristoranti o negozi). Gli ambiti che hanno rivelato una maggiore frequenza di eventi discriminatori sono il luogo di lavoro (40%) e la frequentazione di servizi pubblici o privati (22%).

Tra gli intervistati gli individui che subiscono il maggior livello di discriminazione sulla base della provenienza etnica in Europa vi sono individui con provenienza etnica Nordafricana e Rom.

L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), che dal 2003 si occupa di monitorare e studiare eventi discriminatori e cercarne possibili soluzioni, ha compilato un glossario di definizioni, nel quale sotto la voce “Discriminazione” distingue tra:


DISCRIMINAZIONE ISTITUZIONALE: Quando un ente pubblico o una qualsiasi altra istituzione manca di fornire un servizio appropriato e professionale o prevede una norma o un regolamento che pregiudicano una particolare categoria di persone si configura una discriminazione istituzionale. La principale caratteristica di questa forma di discriminazione è che si esplica in modo impersonale attraverso regolamenti, procedure e prassi.


e


DISCRIMINAZIONE SISTEMICA: Con quest’espressione s’intende una forma complessa e articolata di discriminazione che opera sia a livello micro (interpersonale) sia a livello macro (istituzionale, politico, legislativo) originando una situazione nella quale le persone sono trattate in modo discriminatorio in modo sistematico e vivono una situazione di oggettivo svantaggio in molti ambiti del vivere sociale. Il caso più citato in merito alle forme di discriminazione sistemica riguarda le comunità di origine Rom.[1]


Se molte forme di discriminazione sistemica e istituzionale vengono messe in atto strettamente per avvantaggiare economicamente o politicamente chi le mette in atto, in altri casi altrettanto diffusi, le pratiche discriminatorie sono compiute in modo inconsapevole o irrazionale, a tal punto da sfavorire chi le attua[2].


A giugno del 2019 – ben prima dell’abbattersi della pandemia da SARS‑CoV‑2 – il 20% della popolazione più ricca dell’Italia deteneva quasi il 70% della ricchezza nazionale, mentre il 60% più povero appena il 13,3%.[3] Nei vent’anni trascorsi dall’inizio del nuovo millennio – come evidenzia il Global wealth report del Research Institute di Credit Suisse – le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco dei nostri connazionali e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal decile più alto è cresciuta del 7,6%, mentre la quota della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa (ad eccezione di un lieve incremento negli ultimi anni, prima del Covid‑19), riducendosi complessivamente negli ultimi 20 anni del 36,6%.[4] Un’indagine della Banca d’Italia sulle famiglie italiane svolta tra aprile e maggio 2020, quindi durante il primo lockdown, oltre la metà degli intervistati dichiarava di aver subito una contrazione nel reddito familiare. Sempre nella stessa ricerca, il 30% dei lavoratori indipendenti dichiarava di non avere risorse liquide sufficienti ad affrontare le spese per più di tre mesi.[5]

Se leggiamo gli indicatori relativi alla ricchezza del Sud Tirolo, questi collocano il nostro territorio ai vertici dell’Italia con un reddito medio di oltre 40 mila euro annui per famiglia (dato del 2018).[6] Osservando l’ultimo decennio (2008-2018) non si rilevano variazioni significative, pertanto i redditi non hanno ancora recuperato la crisi economica del 2008-2009. All’interno della distribuzione della ricchezza, però, ci sono significative differenze: ad esempio, il 20% della popolazione con i redditi più alti ha un reddito di 5,22 volte maggiore del 20% delle famiglie con il reddito più basso (indicatore S80/S20). Tale dato, rispetto al 2013 è in aumento. Sebbene la quota della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale in Sud Tirolo (20,1%) faccia segnare valori più bassi dell’Italia nel suo complesso (27,3%), tale indicatore è in controtendenza rispetto al dato nazionale.[7]

Riuscire a determinare la ricchezza individuale è importante perché è connessa con la capacità dell’individuo nell’investire sul proprio futuro. Le condizioni economiche influiscono sulle opportunità d’istruzione, facilita l’accesso al credito, offre la possibilità di rifiutare condizioni di lavoro inique, garantisce la libertà di assumere rischi per realizzare progetti imprenditoriali.

Lo storico austriaco Walter Scheidel, nel tentativo di cogliere le motivazioni che hanno portato nelle varie epoche storiche ad una riduzione delle diseguaglianze, conclude che solo i grandi choc derivanti dalle epidemie, dalle catastrofi, dalle guerre e dalle rivoluzioni si dimostrano in grado di ridurre la disuguaglianza.[8] Per quante suggestioni possano indurre le conclusioni cui è arrivato lo storico austriaco, va specificato che – ad esempio – la peste nera del xiv secolo, secondo alcuni calcoli, colpì grossomodo un terzo della popolazione europea, mentre il COVID‑19 ha generato oltre 2 milioni di morti su 500 milioni di europei. Fortunatamente gli effetti sulla mortalità delle due pandemie sono sostanzialmente differenti.

Poiché – a conferma delle teorie di Scheidel – l’impatto della pandemia non sarà così letale, gli effetti livellatori non si faranno sentire, anzi, si potranno attendere effetti che enfatizzeranno le sperequazioni. In questa direzione vanno tutte le analisi e gli scenari elaborati dai vari centri di ricerca.[9]

Secondo alcune simulazioni elaborate dall’ASTAT, se non fossero state attuate misure di sostegno ai redditi familiari nel 2020 sarebbero aumentate le diseguaglianze tra la popolazione. Pertanto, i sostegni non hanno solo aiutato economicamente le famiglie sostenendone i redditi, ma hanno contribuito a non allargare la forbice tra le famiglie più povere e quelle più ricche. L’ASTAT ha calcolato che senza misure di sostegno l’indicatore S80/S20 sarebbe arrivato a 5,34.[10]

Il fatto è che la pandemia da Covid‑19 si è innestata su una situazione caratterizzata già da forti diseguaglianze, più ampie di quelle esistenti al momento della crisi economica del 2008‑2009.

Il tasso di occupazione del 2020 in Italia indica che è diminuito del 3,7 per gli stranieri e dello 0,7 per gli italiani. Non solo: per la prima volta la popolazione con retroterra migratorio ha fatto registrare un tasso di occupazione minore degli italiani (57,3 contro il 58,2).

Nella provincia di Bolzano, nel semestre novembre 2020‑aprile 2021, l’occupazione dipendente ha fatto registrare un saldo negativo pari al 5,5%. Se poi si procede ad analizzare il settore turistico il calo raggiunge l’80% dei contratti a tempo determinato.[11]

A risentire maggiormente della crisi sono state le fasce più deboli dei lavoratori, ovvero, giovani, donne, over 50 e stranieri. Rispettivamente i cali registrati per ciascuna categoria sono pari al 6,6%, 6,1% le donne, 2,5 per gli over 50 e ben il 18,8 per gli stranieri.[12]



Don’t ask, don’t tell. L’invisibilità sul posto del lavoro e discriminazione di orientamento sessuale sul lavoro.


Spesso si è portati a pensare che il dichiarare la propria identità sessuale sia una questione di secondaria importanza e riferibile unicamente alla sfera privata: don’t ask, don’t tell. Diversi studi mostrano che l’invisibilità sul posto del lavoro, soprattutto quando non è frutto di una libera scelta, ma una strategia in relazione all’ambiente che viene percepito come ostile o penalizzante, riduce notevolmente le condizioni di salute e benessere psico‑fisico delle persone. L’analisi di organizzazioni che hanno adottato politiche volte a riconoscere e affermare la diversità sessuale nei dipendenti, meno probabile è che subiscano discriminazioni e godano di un trattamento più equo. Anche la soddisfazione e l’impegno nel lavoro tra i dipendenti gay o lesbiche è tra i più alti.

Nick Drydakis ha verificato, rispondendo a delle offerte di lavoro con l’invio di curricula identici, ma in un caso veniva esplicitato il proprio orientamento sessuale e nell’analogo no, come le persone dichiaratamente omosessuali venissero discriminate nel processo di selezione. Inoltre, ha verificato come ci fosse un peggiore trattamento economico in caso dei maschi rispetto ai loro colleghi dello stesso genere. Per le donne, pur presente, il peggior trattamento economico era in misura minore rispetto alle colleghe.[13] Inoltre, uno studio di Karen Leppel del 2009 mostra come esistano maggiori probabilità di rimanere disoccupati per uomini e donne sposate con persone dello stesso sesso rispetto alle coppie eterosessuali.[14]

A causa della rilevanza di tali processi, l’invisibilità dei lavoratori omosessuali e bisessuali costituisce un ostacolo alla loro piena affermazione professionale, e una causa di minori prospettive di carriera e retributive, anche indipendentemente dalla volontà delle aziende di discriminare. Dunque, per la differente possibilità o attitudine a celare la propria identità, almeno nelle prime fasi della ricerca di lavoro, è ipotizzabile che in generale le persone omosessuali o bisessuali siano colpite per lo più da discriminazione sul posto di lavoro, mentre le persone transessuali e transgender sono soggette a più forte discriminazione nell’accesso al lavoro e nel licenziamento.

Con la Comunicazione COM(2020) 698 Unione dell'uguaglianza: strategia per l'uguaglianza LGBTIQ 2020-2025, la Commissione ha stabilito una strategia di azioni per l’inclusione delle persone LGBTIQ che si basa su quattro pilastri principali:


1. combattere la discriminazione nei confronti delle persone LGBTIQ;

2. garantire l'incolumità delle persone LGBTIQ;

3. costruire società inclusive per le persone LGBTIQ; e

4. guidare la lotta a favore dell'uguaglianza delle persone LGBTIQ nel mondo.


«La Commissione promuoverà il ricorso al Fondo sociale europeo Plus (FSE+) per migliorare la posizione socioeconomica delle persone LGBTIQ più emarginate e svilupperà iniziative incentrate su gruppi specifici quali gay, lesbiche, bisessuali, persone trans e intersessuali».[15]



Lavori pessimi e lavori bellissimi.


«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» recita il primo comma dell’articolo 1 della Costituzione italiana. La prima formulazione proposta fu quella di Mario Cevolotto: «Lo stato italiano è una Repubblica democratica».

Fu Aldo Moro a proporre di aggiungere un riferimento al mondo del lavoro; Togliatti, Lelio Basso e altri proposero la formula «Repubblica democratica di lavoratori», ma questa formula non soddisfaceva i più per il timore che indicasse una svolta socialista della Costituzione. In un intenso e accorato intervento Amendola si rivolse alla Democrazia Cristiana con queste parole:


Non abbiate paura, colleghi, e se veramente credete che il lavoro è il fondamento della Repubblica, non nascondete, vergognosamente, pudicamente, questa affermazione nelle pieghe di un capoverso che pochi leggeranno; ma proclamatelo solennemente, direi orgogliosamente, nella prima riga della Costituzione, in una dichiarazione che tutti gli Italiani conosceranno e che dia a tutti i lavoratori la certezza e la fede nell’avvenire democratico del Paese. E io credo che una nostra affermazione concorde – che è possibile – su questo primo articolo, avrebbe un grande significato e illuminerebbe i nostri lavori; permetterebbe di affrontare insieme le difficoltà che incontreremo nei prossimi articoli. Affrontiamo e superiamo insieme questa superabile difficoltà che ci troviamo davanti al primo articolo, e potremo fare della buona strada anche negli altri articoli».[16]


La sintesi la si raggiunse con l’enunciato che conosciamo e a fare tale proposta fu Amintore Fanfani che argomentò così in plenaria:


Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, la pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune. L’espressione «fondata sul lavoro» segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione.[17]


Come osserva Gustavo Zagrebelsky parlando del primo articolo della Costituzione, «il riconoscimento del lavoro come fondamento della res publica, la cosa o la casa comune, significa compimento d’un processo storico d’inclusione nella piena cittadinanza, durante il quale non si è verificato alcun ribaltamento dei rapporti di classe: inclusione non rivoluzione, conformemente alla logica dello sviluppo storico del costituzionalismo, una dottrina che aborre i rivolgimenti, mentre è aperta all’evoluzione per acquisizioni cumulative, cioè evoluzioni».[18]

La carta costituzionale il lavoro lo declina «in tutte le sue forme e manifestazioni» (articolo 35), pertanto lavoratori sono i salariati, i liberi professionisti, gli imprenditori, le casalinghe e il lavoro è titolo d’appartenenza alla comunità nazionale, alla cittadinanza. Ma non è sufficiente affermare in via di principio che il lavoro è condizione inclusiva, occorre che la Repubblica rimuova «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3). «La questione democratica è questione del lavoro, e del lavoro libero e dignitoso» afferma Zagrebelsky e si domanda: «Che cosa importa la democrazia se non è garantito un lavoro che permetta di affrontare i giorni della vita, propria e dei propri figli, e di affrontarli con un minimo di tranquillità?».[19] In questa domanda riecheggia la lezione di uno dei padri costituenti, Piero Calamandrei, che in occasione di un ciclo di conferenze sulla Costituzione rivolte agli studenti universitari e medi che si tennero a Milano nel gennaio del 1955 presso la Società Umanitaria affermava:


Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica. Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.[20]


In Italia l’ascensore sociale si è fermato da tempo, ormai. Le statistiche fornite dall’ISTAT sul tasso di mobilità sociale confermano icasticamente il dato. Ciò che emerge dall’analisi sulla mobilità sociale è che nell’ultima generazione di trentenni osservata «aumentano i figli che si ritrovano tra i lavoratori a bassa qualificazione del terziario, superando in tutte le generazioni la quota dei corrispondenti genitori nelle stesse posizioni. In sintesi, nel passaggio dalla generazione dei genitori a quella dei figli, si è verificato un considerevole rallentamento dell’espansione dimensionale delle classi medie e superiori. Tale tendenza è iniziata a partire dalla metà degli anni ’90 con la prolungata fase di stagnazione del nostro sistema economico-produttivo ed è proseguita, più di recente, con la recessione del 2008. Parallelamente si sono ridotte anche le posizioni di stampo operaio e sono cresciute quelle a basso livello di qualificazione presenti nel settore terziario».[21]

Se per le generazioni nate fino alla fine degli anni Sessanta del XX secolo si possono notare tassi di mobilità ascendente in aumento – ovvero, un miglioramento della generazione successiva rispetto a quella dei genitori – e parallelamente una diminuzione dei tassi di mobilità discendente, a partire dall’ultima generazione le persone si confrontano con un’inversione di tendenza: diminuisce il tasso di mobilità ascendente e s’interrompe la diminuzione del tasso di mobilità discendente.


Per i nati tra il 1972 e il 1986 la quota di chi sperimenta una mobilità verso il basso (26,6 per cento) è tale da superare i livelli registrati da tutte le generazioni precedenti, inclusa quella più anziana, ossia quella dei nonni (21,8 per cento). Questo peggioramento è tanto più incisivo se si considera che, tra i componenti dell’ultima generazione, la quota di persone mobili in senso discendente supera quella con mobilità ascendente, marcando così una netta discontinuità nell’esperienza storica compiuta dalle generazioni nel corso di tutto il XX secolo.[22]


Anche uno studio della Banca d’Italia analizza il fenomeno e mostra come il nostro Paese sia caratterizzato da un’alta persistenza intergenerazionale e negli anni più recenti questo fenomeno registri una tendenza in aumento. Lo studio indaga anche i fattori che concorrono a determinare lo status della generazione successiva. Le conclusioni sono che le condizioni di partenza sono determinanti per la posizione sociale degli individui, alla luce di fattori ambientali quali il quartiere di provenienza, le scuole frequentate, vincoli familiari e legami di amicizia. Ancora una volta, dunque, si denuncia il brusco rallentamento, o meglio, il consolidato blocco dell’ascensore sociale.[23]

L’immobilità sociale svuota di significato quel principio di eguaglianza sostanziale, consacrato nel secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, che richiede un impegno delle istituzioni repubblicane per un pieno sviluppo della personalità e una effettiva partecipazione di tutti alla vita comunitaria. L’Italia, pur facendo registrare tassi elevati di mobilità assoluta, è caratterizzata da una scarsa fluidità sociale. Più in generale, si pone il problema di come si formi la classe dirigente del Paese: dai dati pare per cooptazione.

Secondo il World Economic Forum l’Italia raggiunge solo la 34° posizione nel Global Social Mobility Index. In Italia, secondo l’indagine del World Economic Forum del 2020, sono necessarie cinque generazioni a una famiglia a basso reddito per raggiungere il reddito mediano, contro le due in Danimarca o tre in Svezia, Finlandia e Norvegia.[24]



Upgrading e polarizzazione


Da studi condotti su alcuni paesi europei è emersa una tendenza generalizzata alla qualificazione della struttura occupazionale (o upgrading), intesa come aumento dei buoni lavori (good job) a discapito delle professioni poco o per nulla qualificate (bad jobs).[25] Questi dati confermerebbero quanto Bell preconizzava nel 1973 definendo la società post‑industriale, basata sulla conoscenza come fattore chiave nei processi di creazione di valore che avrebbe portato a una generalizzata qualificazione del mondo del lavoro.[26]

Altri studi, condotti sui paesi anglosassoni, hanno evidenziato che la traiettoria di mutamento che meglio coglie le trasformazioni della struttura occupazionale sia quella della polarizzazione. La polarizzazione del mercato del lavoro è definita come la tendenza all’aumento della forza lavoro collocata ai due poli del continuum lavori dequalificati/qualificati, e la contemporanea diminuzione di chi occupa la parte centrale di questa distribuzione in un effetto clessidra; in altri termini, aumentano sia i lavoratori qualificati che quelli dequalificati, mentre diminuiscono quelli con livelli medi di qualificazione. Tale polarizzazione Phillip Brown, Hugh Lauder e David Ashton l’hanno suggestivamente collegata all’erosione delle classi medie.[27]

La polarizzazione del mercato del lavoro è stata osservata in diversi paesi europei e tra questi anche l’Italia.

Quale che sia l’esito preconizzato dai vari studiosi, il mutamento della struttura dell’occupazione è interpretabile come il risultato delle traiettorie che le dinamiche di terziarizzazione hanno assunto nei diversi contesti nazionali. Il processo di terziarizzazione dell’Italia, che pure può ormai a pieno titolo definirsi una società dei servizi, è stato tardivo e più contenuto sia in termini quantitativi che qualitativi, con l’aumento di lavoratori concentrato nei comparti più dequalificati del terziario. La «via bassa alla decrescita occupazionale» che ha caratterizzato la fase successiva alla crisi economica del 2008, infatti, va intesa riferendosi proprio ai peculiari caratteri della transizione terziaria sperimentata in Italia [28]

In virtù di una traiettoria di terziarizzazione tardiva e particolarmente povera, a oggi è molto bassa la quota di occupati in attività intellettuali – che pur è aumentata nel corso degli anni novanta e duemila, fino all’avvento della crisi economica – e manageriali di elevata specializzazione in ambito scientifico e umanistico (si pensi a insegnanti e docenti di vario grado, ingegneri e architetti, funzionari d’alto livello), anche se emerge una quota piuttosto consistente di tecnici (la fascia più bassa all’interno delle professioni non manuali qualificate), anch’essi aumentati nel corso degli anni novanta e duemila. Al contempo, è altissima la percentuale di occupati poco qualificati nei servizi alla persona e alle vendite (commercianti, addetti alla ristorazione e lavoratori nel turismo).[29]

Lo studio condotto da Giorgio Piccitto sul mutamento della struttura occupazionale in Italia conclude che


Al centro-nord, il rallentamento dell’upgrading e il contestuale aumento di lavoratori nei segmenti dequalificati del lavoro nel post-crisi [del 2008-009] (tema peraltro legato a doppio filo a quello dei working poors e all’aumento delle disuguaglianze sociali) desta preoccupazione, poiché rischia di penalizzare pesantemente l’Italia in termini di competitività internazionale. Urgono interventi mirati a stimolare l’innovazione dei processi di organizzazione del lavoro (ancora troppo path-dependent dal tradizionale tessuto produttivo incentrato sulle piccole e medie imprese) e i comparti del terziario avanzato ad alta qualificazione per scongiurare rischiose torsioni verso la «via bassa» e rispondere a un’offerta di lavoro autoctona sempre più istruita e «spiazzata» dalla competizione con quella immigrata.[30]


[1] UNAR, Glossario di definizioni da mettere a disposizione degli operatori dei Centri/Osservatori antidiscriminazione operanti presso le Regioni dell’Obiettivo Convergenza, pp. 9 e 12. [2] E. Patacchini-G. Ragusa-Y. Zenou, Unexplored dimensions of discrimination in Europe: Religion, homosexuality and physical appearance, «Journal of Population Economics», vol. 28 (4), pp. 1045-1073. Lo studio ha verificato empiricamente come le richieste di lavoro da parte di maschi omosessuali avessero un 30% di probabilità in più di venire rifiutate, probabilità che aumentava con il livello di formazione che il resumé presentava. [3] Oxfam Italia, Disuguitalia. Dati e considerazioni sulla disuguaglianza socio‑economica in Italia. Briefing di accompagnamento del rapporto Oxfam “Il virus della disuguaglianza” a cura di Oxfam Italia, a cura di Mikhail Maslennikov, Oxfam Italia, 2021. [4] Research Institute Credit Suisse, Global wealth report 2019, ottobre 2019, Credit Suisse, <https://www.credit-suisse.com/media/assets/corporate/docs/about-us/research/publications/global-wealth-report-2019-en.pdf>. Per la precisione, l’indagine si ferma al primo semestre del 2019. [5] A. Neri‑F. Zanichelli, Principali risultati dell’indagine straordinaria sulle famiglie italiane nel 2020, «Note Covid‑19», 26 giugno 2020, Banca d’Italia, <https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/note-covid-19/2020/Evi-preliminari-ind-straord-famiglie.pdf>. [6] http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_GINIREDD#. [7] ASTAT, Redditi e condizioni di vita delle famiglie 2018-2019 e stima 2020, «astatInfo», n. 11, 02/2021. [8] W. Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, il Mulino, Bologna, 2019. [9] A titolo di esempio, oltre ai documenti già citati, si vedano: E. Viviano, Alcune stime preliminari degli effetti delle misure di sostegno sul mercato del lavoro, «Note Covid‑19», 16 novembre 2020, Banca d’Italia, <https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/note-covid-19/2020/Nota-Covid-19.11.2020.pdf>; Research Institute Credit Suisse, Global wealth report 2020, ottobre 2020, Credit Suisse, < https://www.credit-suisse.com/media/assets/ corporate/docs/about-us/research/publications/global-wealth-report-2020-en.pdff>; Research Institute Credit Suisse, What will last? The long-term implications of COVID‑19, dicembre 2020, Credit Suisse, <https://www.credit-suisse.com/media/assets/corporate/docs/about-us/research/publications/the-long-term-implications-of-covid‑19.pdf>; per un compendio statistico si veda: https://ec.europa.eu/eurostat/cache/recovery-dashboard/. [10] ASTAT, Redditi e condizioni di vita delle famiglie, cit., p. 17. [11]Ufficio Osservazione mercato del lavoro, Rapporto sul mercato del lavoro in provincia di Bolzano. 2021/1. Novembre 2020-aprile 2021, Provincia autonoma di Bolzano – Ripartizione Lavoro, giugno 2021. [12] Ivi, pp. 29‑32. [13] N. Drydakis, Sexual orientation discrimination in the labour market, «Labor Economics», n. 16 (2009), pp. 364‑372. [14] K. Leppel, Labour Force Status and Sexual Orientation, «Economica» n.s., vol. 76, n. 301 (febbraio 2009), pp. 197‑207. [15] COM(2020) 698 final, p. 8. [16] Assemblea Costituente. Resoconto stenografico di seduta. lxix. Seduta di giovedì 20 marzo 1947, p. 2281. [17] Assemblea Costituente. Resoconto stenografico di seduta. lxxii. Seduta pomeridiana di sabato 22 marzo 1947, p. 2369. [18] G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro: la solitudine dell’articolo 1, Torino, Einaudi, 2013. [19] Ivi. [20] P. Calamandrei, Lo Stato siamo noi, Milano, Chiarelettere, 2016, pp. 3‑9. [21] ISTAT, Rapporto annuale 2020. La situazione del Paese, ISTAT, Roma, 2020, p. 138. [22] Ivi, p. 140. [23] L. Cannari-G. D’Alessio, Istruzione, reddito e ricchezza: la persistenza tra generazioni in Italia, Questioni di economia e finanza, n. 476, Banca d’Italia, Roma, 2018. [24] WEF, The Global Social Mobility. Report 2020. Equality, Opportunity and a New Economic Imperative, Ginevra, 2020, pp. 9‑10, http://www3.weforum.org/docs/Global_Social_Mobility_Report.pdf. [25] Cfr. E. Fernández-Macías. Job Polarization in Europe? Changes in the Employment Structure and Job Quality, 1995‑2007, «Work and Occupations», vol. 39, (2012), n. 2, pp. 157-182; D. Oesch‑G. Piccitto, Upgrading, not Job Polarization. Occupational Change in Germany, Spain, Sweden and the UK, 1992-2015, paper presentato alla ECSR annual conference, Milano, 2017; D. Oesch‑J. Rodríguez Menés, Upgrading or Polarization? Occupational Change in Britain, Germany, Spain and Switzerland, 1990-2008, «Socio-Economic Review», vol. 9 (2010), n. 3, pp. 503-531. [26] D. Bell, The Coming of Post-Industrial Society. A Venture in Social Forecasting, Harmondsworth, Penguin, 1973. [27] P. Brown‑H. Lauder-D. Ashton, The Global Auction: The Broken Promises of Education, Jobs, and Income, New York, Oxford University Press, 2011. [28] Cfr. E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2011; I. Fellini, Una «via bassa» alla decrescita dell’occupazione: il mercato del lavoro italiano tra crisi e debolezze strutturali, «Stato e Mercato», vol. 35 (2015), n. 3, pp. 469-508; ead., Il terziario di consumo. Occupazione e professioni, Roma, Carocci, 2017. [29] Reyneri, cit. [30] G. Piccitto, Qualificazione o polarizzazione? Il mutamento della struttura occupazionale in Italia, 1992-2015, «Polis», fasc. 1, aprile 2019.

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